LA CRITICA SU AURELIO C.

Hanno scritto di Aurelio C.

Mario De Micheli – Emilio Villa – Sebastian Matta – Caroline Gallois
Gabriele Mucchi – Lorena Corradini  – Gianfranco Bertolo – Giorgio Seveso

Mario De Micheli

Aurelio è un pittore di natura energica e d’incalzante immaginazione. Di fronte all’esigenza di una comunicazione diretta, efficace, immediata, non indietreggia. Egli mette generosamente a repentaglio se stesso e in qualche modo persino la sua arte.

Sino a qualche tempo fa egli dipingeva la città: rutilanti strutture rosso-azzurre, scenografie in profondità, teatro tecnologico di una cronaca allucinante. Le dipingeva con lame di colore tranciante, con fulminea e guizzante maniera, con improvvise incandescenze. Poi, fra le tele di crudeli e abbaglianti luci urbane, fra le quinte geometriche dell’ambiente oppressivo, è apparso un simbolo di contestazione: il pugno dalle dita moltiplicate che stringe il coltello. Per più di un aspetto, quel pugno è uscito dal furore di «Guernica»: anche in «Guernica», infatti, il pugno dipinto da Picasso tra le zampe del cavallo, è un pugno con più di cinque dita. Ma nel pugno di Aurelio quelle dita hanno proliferato. Un pugno brulicante di dita! E l’iperbole è evidente. Il procedimento è lo stesso di Siqueiros quando moltiplica le braccia di Cuantemoc, l’eroe della lotta contro i “conquistatores”, per rappresentare in una sola figura la moltitudine popolare.

È raro trovare un pittore che più di Aurelio avverta l’esigenza d’inventare immagini trasmissibili, simboli collettivi, emblemi ideali e ideologici. Un occhio attento non si farà ingannare: dietro le sue sintesi più esplicite, più lampanti, leggerà senz’altro una folta presenza di esperienze plastiche, filtrate con spregiudicato ma consapevole intento, prima fra tutte l’esperienza surrealistica; leggerà una perizia sorprendente, una cultura figurativa consumatissima, una sicurezza che può solo nascere da un lungo, iterato esercizio; e leggerà la sottile capacità di sottrarre il simbolo al sogno per restituirlo alla realtà.

Alle spalle di Aurelio c’è quindi un itinerario già ricco di prove e di risultati, un itinerario che l’ha portato in giro per il mondo a saggiare le sue forze, a misurare le sue qualità di uomo e d’artista in un dibattito culturale tuttora in corso, senza timore di correre rischi, di giocare la propria sorte. La sua inquietudine è attiva, traboccante: oggi come ieri. Nello scontro con la realtà egli non ha paura di sbucciarsi le mani. E questo è quello che conta.

Alle spalle di Aurelio c’è quindi un itinerario già ricco di prove e di risultati, un itinerario che l’ha portato in giro per il mondo a saggiare le sue forze, a misurare le sue qualità di uomo e d’artista in un dibattito culturale tuttora in corso, senza timore di correre rischi, di giocare la propria sorte. La sua inquietudine è attiva, traboccante: oggi come ieri. Nello scontro con la realtà egli non ha paura di sbucciarsi le mani. E questo è quello che conta. Per conto mio sarei felice se un giorno potesse invadere la pìù vasta superficie di un muro con le sue immagini espansive e incombenti. Sarebbe un’impresa che finalmente lo metterebbe a suo agio.  Una pittura ferma, leggera e compatta insieme, senza ridondanze e sbavature, ma al tempo stesso brillante di un colore che è sempre traslato, esso stesso immagine dentro l’immagine, vivo nell’invenzione dialettica generale in cui il tema si risolve: ecco quali sono i caratteri stilistici di questa pittura.
Ma vorrei sottolineare ancora un fatto. Aurelio non dipinge delle “idee”.I suoi quadri non sono allegorie… Un uomo è un uomo, un fiore è un fiore, ma al tempo stesso sono umanità e natura.Nei momenti più acuti del suo discorso plastico è questa, appunto, l’evidenza che Aurelio sa cogliere con straordinaria sicurezza.

Emilio Villa

Caro Aurelio,
ti scrivo da Sodoma, dal sale di Gomorra, dal torrente del Seboijim, ti scrivo appoggiato al muraglione di Ur, da una finestra di Bersceba; ti spedisco questo foglio da un balcone a vertigine della Torre di Babele, dallo sportellino dell’Arca, della Bara, sull’ala ubriaca, sulla coda della Colomba, in alto. Città, torri, barconi di cartapesta poliestere polivinile rhodiatoce celotex baraclit masonit: paesaggi inutili e spropositati.
Queste sono ormai le città che vogliono deglutirci. Ma io tiro su di scatto la testa, un momento a questa tua improvvisa alzata di quadri e penso ora alle tue vere città, alle tue vere torri, alle tue stanze, alle tue imbarcazioni. distanze, orizzonti, habitat della mente inquieta: foglie dell’ambiguo perenne, delle invocazioni idolatre; assise dell’universa discordia, della rissa immaginaria, dello sguardo senza requie; sorgenti delle dimensioni, starter dei tramiti, delle fughe; urna vessata delle insidie, e dello zero insigne; rete per le voci che ci sopravanzano. e captano oggi di mattina le ceneri dei fiati futuri sulle pareti sugli usci sugli stipiti del vento, sulle ganasce tramortite del mostro: e allusioni, tergiversanti, della nostra stessa sopravvivenza sui margini del naufragio, sul punto giusto di annegare e ritrovar la pace.
Tu sai scrivere acque tribolate sul cuore dell’unanime, sai trarre dall’unghia delle immagini anche provocazioni di entusiasmi, di patrimoni futuri, di ore e arie diluvianti, flagranti; recuperare idealmente il consorzio ineffabile dell’animato e dell’inanimato, il sodalizio delle tangenze, gli attriti delle rapine pluriverse plurivoche pluricordi, le irradiazioni alterne del rischio e delle essenze.
Le tue città, Aurelio, sono vere, vere; e da quanti anni ormai. Vere, aperte. Oggi mi esalta ripensarle, rivederle, ricordarle, lo amo i tuoi quadri; le tue città lampeggiate, folgorate. E ricordandoti che siamo congiunti nell’idea ideale; congiunti nel l’asserire di fronte al mondo i nostri diritti profondi a una città franca, che dovranno sorteggiare per noi, perché è nostra, è voluta, è meritata, per noi, per la nostra rissa, per la nostra libertà, per la nostra morte.
Ti abbraccio, tuo
Emilio Villa

Sebastian Matta

Caro Aurelio,la nostra società è diventata una natura di secondo grado – e la città moderna è una morfologia di questa seconda natura. lo penso che tu sei l’unico che da un’immagine di come la struttura delle contraddizioni che esistono in una città, abbia creato una struttura mentale, un nuovo labirinto nel quale si devono situare i rapporti umani per afferrarli nella loro più grande realtà.
Sono città apocalittiche le tue. Nella nostra mente le cartoline illustrate di New York non sono neanche un pallido riflesso della apocalipsis di New York. Tu potrai a poco a poco identificare questi ritratti di città, più umani, più totemici, più ostili o più emancipati.Io mi auguro che lavorando algebricamente, calcolando le contraddizioni, in queste città si evochi la struttura per la quale tra gli uomini si possa creare una vera condizione umana.
Buon lavoro.

Caroline Gallois

Le immagini di Aurelio sono lo specchio, alla volta stimolanti e disperanti della nostra vita contemporanea. Folle con volti anonimi, personaggi tragicomici, si accalcano, si precipitano e si perdono nel ridicolo della nostra alienazione consumatrice. I rumori della ‘Citè’, gli schermi di “time square”, gli urli dei clacson, l’affollamento delle persone sono espresse da una raffigurazione complessa che attraversa tutta la storia dell’arte da Piero della Francesca al realismo messicano di Diego Rivera…
Questa pittura senza dubbio molto contemporanea, si colloca necessariamente nella tradizione della grande pittura italiana.

Gabriele Mucchi

…”arte senza vita, senza lotta, senza avvenire? No. Anzi arte attuale, ma arte che innanzi tutto vuoi parlare a tutti, non ai soli intenditori; arte che vuoi dire le cose dei nostri giorni, con un linguaggio moderno ma atto a dire queste cose come con un linguaggio simile sono state dette le cose nei secoli…”

Lorena Corradini

Per Aurelio la scelta del realismo va al di là delle mere motivazioni di ideologia politica, ne tanto meno di recupero accademico o naturalistico: è davvero una scelta esistenziale. Per questo motivo la sua opera e la sua ricerca del nuovo significato della realtà sono lontane dalla passiva rappresentazione della natura o delle cronache di vita. È, piuttosto, un realismo nutrito dalla cultura contemporanea che vede Aurelio completamente partecipe alle vicende, alle lotte del mondo proletario. Il suo «copiare» la realtà è in effetti una incontenibile ansia di svelare quello che le apparenze celano, incarnandolo. Ma l’artista fa subito notare che la sua caratteristica preminente è il «tema», la rappresentazione dei diseredati, degli oppressi sia nella fase del loro disagio sia in quella del loro riscatto rivoluzionario; e non il soggetto in sé, perché tutto in lui parla di lotta e di rinascita anche nei paesaggi apparentemente tranquilli e banali.

Quindi una ricostruzione critica del reale, senza scostarsi dalla visione comune a tutti gli uomini, affermando che per arrivare all’uomo come è oggi bisogna partire dall’uomo e dalle immagini che sono di comune dominio, verso immagini inedite più che da scoprire da riconoscere perché più precise. Opere di grande carica comunicativa e altamente emotive soprattutto nelle grandi dimensioni dei murales che, come nelle grandi rappresentazioni del passato più remoto, hanno il compiuto di sensibilizzare ed educare l’uomo attraverso un racconto per immagini.

Il suo messaggio è tanto più efficace in quanto non solo mette in luce un universo di squallore ed abiezione, ma anche perché propone il linguaggio ad esprimerlo, il quadro cresce col ritmo lungo e lento delle presa di coscienza del vero.
Se per altri artisti, aderenti a questa figuratività e a queste tematiche, si può parlare di opere più rivoluzionarie nelle forme che nei contenuti, questo giudizio non s’addice ad Aurelio. Alle sue spalle giocano le importanti esperienze dell’arte di impegno sociale di questo secolo cui deve la forte carica di satira e di grottesco, da sempre strumenti di demistificazione dei feticci della civiltà di massa.

Per Aurelio realismo significa soprattutto conoscere la vita per poterla rappresentare veridicamente nelle opere d’arte. Rappresentandola non in maniera scolastica, statica, come semplice realtà oggettiva, ma rappresentarla come la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario che vive in una profonda e propria libertà.
Per questo a pochi pittori del ‘900, tra cui Aurelio, è stato consentito risolvere la difficilissima operazione di dipingere nel modo più «facile» e comunicativo rispettando allo stesso tempo la intrinseca difficoltà semantica dell’arte moderna. Infatti mentre sul piano dei contenuti i temi di Aurelio sono rivolti ad un popolo quotidianamente in lotta, lontano dalla gente appartenente al mondo del socialismo realizzato, al contempo, sul piano delle forme, questo disegnare e dipingere così «finito», talvolta brutale, riflette la moderna condizione di crisi del mondo tematico fondendo esiti linguistici europei alla iconografia della tradizione locale.

New York – New York 1995 (La Grande Mela)
di Gianfranco Bertolo – Direttore dei Musei Civici della Villa Reale di Monza

Si discuteva intensamente di convergenza delle Arti in un pomeriggio dell’estate scorsa nello studio di Aurelio, facendo passare via via le tele realizzate sotto la spinta emotiva di una sua vivace e non breve permanenza a New York, la seconda, nell’inverno 1994; la prima volta ne vennero fuori dei paesaggi ironici della grande metropoli. Queste tele dell’ultima, le possiamo vedere anche qui a Fabriano, ed ogni qualvolta l’artista ha affrontato un ciclo – e per molti aspetti queste opere si possono considerare ciclo concluso nel loro “blocco” centrale – la mostra che ne scaturisce può sicuramente essere definita un evento. Così come è stato per i vasti murali realizzati nei lunghi soggiorni trascorsi nella Comunità universitaria di Città del Guatemala, come tra borghesi illuminati, campesinos, sacerdoti della Chiesa di base e sandinisti nicaraguegni e, dato assolutamente non meno importante per la peculiare formazione artistico-culturale a trecentosessanta gradi di Aurelio, come furono i 35 olii prodotti in simbiosi con la classe operaia di Sesto San Giovanni città proletaria per antonomasia e sede di gloriose e storiche fabbriche coma la Breda, la Falk, la Marelli, eccetera, o con gli artigiani orafi di Valenza Po che gli commissionarono un murale, o i dipendenti della “Lugli” di Carpi che gliene chiesero un altro per la loro mensa di fabbrica… Cicli pittorici questi e quelli qui ricordati non sono tutti data la “sconfinata” produzione pittorica dell’artista, che sempre ti arricchiscono sul piano umano e intellettuale.

Così è per questa “America”.

Gli artisti non creano l’Arte del proprio tempo solo perchè intendono essere “moderni” – come acutamente diceva Rudolph Arnheim – ma perchè producono un’Arte quale risultato della traduzione su opere di forma pittorica e plastica, sotto lo stimolo, l’impulso, la spinta emotiva del pensiero e della filosofia della società nella quale operano e con i quali si misurano e si confrontano. E’ perciò del tutto “naturale” che una realtà così drammaticamente testimone dello sviluppo del mondo industriale, informatico, disancori le immagini in maniera diversa, originale, rispetto a ciò che può trasmettere il suono e il calore della foresta tropicale piuttosto che l’eco di lotte dal sapore di cultura europea post-bellica.

Se sfogliamo l’album degli artisti che si sono affermati nel nostro Paese in questi ultimi decenni e quindi coevi di Aurelio, possiamo ben dire che gran parte di questi è classificato e collocabile all’interno delle “cento tendenze” che si sono succedute al “Nord” piuttosto che a Palermo, a Roma, piuttosto che a Milano: alcune validissime hanno segnato le vicende storiche connesse all’Arte, altre di sola moda, hanno vissuto l’effimero spazio di un volo di farfalla. Di Aurelio possiamo dire che nel bene e nel male, rappresenta solo se stesso anche quando tra soggetto e oggetto attraversa tutta la stagione artistica.

Ecco allora che nel momento in cui ci fermiamo sulla lettura di queste tele “americane”, ci traspare un excursus in trasversale di “confronto” con i maestri d’oltreoceano quali Rauschenberg o Tom Wesselmann, Allen Jones piuttosto che Jasper Johns o della stessa produzione americana di Hamilton con le sue opere in metrò, e anche il Bacon della vita urbana inglese.

Questo non tanto per dire che Aurelio “abita lì”, quanto per comprendere come una lettura delle sue opere non possa prescindere da una conoscenza necessaria quanto approfondita, sua e nostra, di chi ha fatto e fa storia e tendenza nell’Arte.

Vorrei ancora ricordare per chi conosce l’artista, come quasi un corso e ricorso vichiano della vicenda, troviamo qui sorprendentemente la stessa mano del primo Aurelio, quasi una identica impostazione calligrafica del segno e della composizione. Per chi conosce l’opera odierna di Aurelio sa di trovare immerse tra i soggetti, citazioni elaborate in chiave ironica, di altre pitture e rimandi ai grandi della nostra pittura da Giotto in poi, come dal “Transito al Sepolcro” di Raffaello, alle allegorie di Picasso o di Luca Signorelli o Matta, riprendendone l’intensità espressiva e la cromaticità così come al tempo scaturiva dalle contraddizioni tra la peste nera a Firenze, il colera a Napoli o il bombardamento di Guernica; drammatico quindi l’impegno dell’artista e di chi non riesce più ad esprimere e rappresentare il nuovo e tende a rifugiarsi in formule già scritte e imparate a memoria dagli ebdomadari illustrati d’arte o nei musei, come avvenne col manierismo successivo al sacco di Roma del 1527. Così oggi nell’ovatta leziosa del citazionismo, e troppi sono gli artisti e, perché no!, i critici che di questo fanno mercato e moneta.

(…)

Le sue tele sulla “Grande Mela” il cui valore insito consiste, tra l’altro, a mio modo di vedere, nel fatto che sono dipinte su una visione eurocentrica, da artista che opera prevalentemente con alla base una formazione in cui è forte la matrice culturale umanistica; ma, sono tuttavia quadri prodotti con una sconcertante e imbarazzante immediatezza e modernità, che travalicano il significato stesso delle immagini e del contenuto per porsi subito “oltre”.

Direi quasi che potrebbe apparire banale richiamare che in essi è presente e fortemente denunciato il concetto di uomo massa, di megalopoli tentacolare, dove la valenza del cromatismo, l’uso ora sofferto ora spregiudicato delle contrapposizioni concesse dall’acrilico, fa sì che l’uno non sia mai identico all’altro, e trasmettono una gamma di sentimenti, emozioni, vibrazioni, che neppure certe immagini e in diretta trasmesse dalla televisione, riescono a coinvolgerci, laddove queste ultime rimangono comunque effimere, ma quelle fissate sulla tela perciò stesso sono bagaglio costante della nostra memoria collettiva.

Gli uomini, il lavoro,
le cose
di Giorgio Seveso

C’è una storia tutta ancora da scrivere all’interno di quella più generale dell’arte contemporanea italiana. È quella, gremitissima di fatti e personaggi, della pittura che si è voluta e si è data un impegno: una storia ricca e complessa, i cui protagonisti hanno trovato, in tempi e modi diversissimi tra loro, ciascuno una collocazione nella multiforme geografia possibile dei temi e degli argomenti engagé. E l’hanno a tal punto trovata (anzi, conquistata e meritata) che senza la loro presenza il nostro panorama artistico, con il suo intreccio fitto e dialettico di interazioni e di approfondimenti, certamente perderebbe alcune delle sue caratteristiche di fondo. Dalle scelte di schieramento esplicitamente politico a quelle di un più generale posizionamento ideale o culturale, questa connotazione è divenuta per tali protagonisti, in modo a volte palese e a volte più sommesso, la speciale matrice alla quale confrontare i problemi dell’espressione e del linguaggio.

In questa storia da scrivere Aurelio avrà sicuramente un capitolo tutto suo. C’è in lui infatti un particolarissimo impasto di gusto per il racconto figurativo e di insorgenze di giudizi etici: un impasto che diviene in pittura una chiave espressiva e poetica estremamente personale, una griglia dalla quale dipende il suo modo di definire immagini, colori e sensi del dipinto. Si tratta di un’alchimia difficilmente ripetibile e ricostruibile, di un vivo precipitato di idee e di sentimenti, di memoria e di coscienza, che riesce a miscelare tra loro sempre fruttuosamente le espressioni appassionate di un immaginario profondamente critico verso l’esistente, verso i meccanismi che determinano gli attuali prevalenti orientamenti della società. E allora ecco nel suo lavoro che i miti e l’eros, che i segni e i volti del Potere occulto o manifesto, che gli oggetti e i panorami del nostro tempo quotidiano di consumismo e di valori effimeri possono farsi come distanti, come “estraniati” direbbe Brecht, e si caricano di una valenza significativa tutta interna al tessuto stesso dell’immagine. Si caricano – si potrebbe dire – di forza critica, di tensione contestativa, di denunzia e risentimento. Di impegno, appunto. E in questo senso la sua è anche una pittura che non ha ancora fatto tutto il giro di se stessa e che, di tutta evidenza, ha ancora molti scandagli da gettare nell’attuale maturità, su quel suo criterio del dipingere che da sempre, come segno forte di carattere e di personalità, è liscio e minuziosamente descritto, privo di pittoricismi compiacenti, crudamente illuminato da una luce pungente, impietosa, rivelatrice.

Mario De Micheli aveva parlato per lui, in un suo scritto del 1975, di rapporto stretto e speciale tra fantasia e ragione: due qualità, due atteggiamenti tra loro complementari, intrecciati in una particolare mescola espressiva ma, anche, due sponde all’interno delle quali si veniva delineando, allora come oggi, la tensione creatrice principale di Aurelio, cioè da una parte il ricorso a simboli e metafore tratte da una fervente immaginazione interiore, affabulatoria, fantastica, iperbolica nelle sue connotazioni, e, dall’altra, il senso preciso della Storia in atto, il richiamo alla ineludibile realtà delle cose e del mondo. E appunto, se guardiamo tutti i diversi snodi del suo lavoro, soprattutto qui, nella particolare simultaneità resa possibile dall’occasione di questa rassegna antologica, vedremo che Aurelio ha soprattutto portato avanti in tutti questi anni, pur nelle diverse modulazioni e variazioni d’impianto e materie, un suo sentimento della centralità e del primato dell’uomo rispetto all’estetica, del mondo reale rispetto al travestimento della rappresentazione, sempre però nell’energia di una spiccata dilatazione lirica, di uno slargamento di umori e sensi. È proprio questo sentimento composito che, nella sua carica di realismo e insieme di immaginazione fulminante, diviene strappo e torsione d’immagine, diventa urlo trattenuto, scherno bruciante, dolore o esplosione di sarcasmo; diviene linguaggio che “tira” i termini figurativi verso una sua lucidissima, inossidabile verità d’immagine, verso una sua palpabile evidenza tattile e concettuale.

Dunque il costante richiamo alla verità fenomenica dell’esistente significa, per Aurelio, riportare nel fulcro della rappresentazione il suo significato etico più concreto, cioè tutto il suo senso più politico, là dove l’osservazione attenta e partecipe dell’artista, nel farsi materia di racconto e di immaginario, diviene anche constatazione e giudizio, presa d’atto e presa di posizione, schieramento, partecipazione. E di questa natura particolare è fatta la sua vocazione al muralismo, che ancora De Micheli aveva intuito e incoraggiato in lui già dalla fine degli anni 60. Una vocazione che lo ha portato a ricercare le possibili occasioni di grandi dipinti pubblici, vasti ed emozionati apologhi del giudizio e dell’evidenza come a Valenza Po, a Carpi, in Nicaragua; ritrovando in questo una linea di continuità e insieme di reciso rinnovamento con le lezioni dei grandi muralisti moderni, soprattutto Orozco e Siqueiros. Sotto i segni apparentemente contraddittori della sensualità e della melanconia, del sarcasmo e dell’indignazione civile, c’è sempre anche in questi grandi lavori qualcosa che ha come la traccia persistente o l’energia ferita di un gesto espressionistico; un gesto, però, senza improvvisazioni, senza casualità, senza sensibilismi psichici o languori sentimentali: cioè trattenuto, meditato, dolorosamente razionalizzato. È qui che, tra fisicità affermativa della vita e aspra coscienza del negativo presente nella società e negli uomini, i corpi e i volti dei personaggi si illividiscono, si imbozzolano in una loro carne come di plastica, nello scrosciare silenzioso delle consapevolezze e nelle brusche sostanze della loro minacciata umanità. Le prigioni quotidiane delle nostre contraddizioni si aprono all’ironia e al compatimento in una luce di concretezze incombenti, estrema solidificazione dello sgomento.

E proprio la centralità del corpo, come sintesi e metafora dei nostri sentimenti, delle nostre stanchezze, della vitalità angosciata e interrogante di una umanità sospesa tra mille egoismi e contraddizioni epocali, stritolata dagli impassibili meccanismi sociali e mercantili che si è lasciata crescere intorno, si impone allora nelle immagini di Aurelio come determinante ossessione, come definitiva, aspra ragione di pittura. Tale centralità si manifesta in ogni immagine, in ogni “storia” raccontata da Aurelio. È come il portato di una infinita variazione che torna su se stessa ad ogni svolta per riprendere le sue domande, per manifestare la propria indignazione, il proprio disagio rispetto all’indifferenza e all’estraneità del mondo e della natura. E la durata nel tempo di questa sua tensione di pittura è pure per questo significativa. Pasolini diceva che il solo modo per conoscere davvero l’umanità è quello di “rappresentarla”… Ma anche Kafka, così diverso, scriveva nei suoi Tagebücher: “Ho potentemente assunto il negativo del mio tempo per rappresentarlo…” Ecco, mi pare si possa dire che, con l’ossessività delle sue figure fantasmiche, anche il nostro artista si è “potentemente assunto”, in tutti questi anni, il carico della negatività del nostro tempo, nell’intento di rappresentarne tutto il disagio e la disumanante alienazione.

Nella rappresentazione resta pur sempre preminente il dato metaforico, la dilatazione quasi visionaria, simbolica, emblematicamente intrigante rispetto all’idea sorgiva. L’immagine si riannoda al suo contesto (e al suo messaggio) per il tramite di una sua estensione lirica, di una sua rappresentazione interiore, per nulla obbligata all’osservanza del dato naturalistico, alla attendibilità della verosimiglianza. In moltissime sue immagini, anzi, le dita e le braccia si moltiplicano, i personaggi volano, le spighe dei campi si trasformano in punte di matita, i fiori divengono carne palpitante… Qui la pittura, tra vibrazioni e fondi clamori, tra richiami alla piattezza urlata della pubblicità e impasti di materiali iconici diversi, si è davvero trovata una sua estrema libertà di suggestioni e traslati, di aneddoti e simboli. Una libertà ritagliata sulle misure risentite di un impegno che non conosce attenuazioni ma solo registra, con il trascorrere degli anni, con il variare delle circostanze politiche e civili in cui l’autore è immerso, variazioni progressive delle emozioni e dei loro riferimenti: reperti diversi di un puzzle psicologico ed esistenziale di smagliante consistenza tattile.

C’è dunque in Aurelio il sentimento di un modo d’essere pittore e di lavorare sulle immagini che non è dato incontrare di frequente nel nostro panorama pittorico. Un sentimento, cioè, di responsabilità totale verso la pittura, per il quale il problema dell’espressione non è solo affare di gusto, non è solo questione di naturale disposizione della mano o, peggio, di attenzione e di furbizia intellettuali. Quel che ha distinto e che distingue Aurelio da molti altri pittori d’oggi, difatti, è anche proprio questo. Essere artista esponendo prima di tutto se stesso e la sua problematica sensibilità, la sua scelta di campo, il suo stare al mondo con gli occhi e con il cuore spalancati a sentire, a capire, a sapere le condizioni, le contraddizioni e i limiti di quelle scintille di coscienza universale che chiamiamo uomini e donne. E, sempre, con un senso acuto della misura espressiva, con un limpido controllo della reale portata delle intensificazioni, delle iperboli, delle deformazioni operate sulle ambientazioni, situazioni e figure “messe in scena” che, nel suo lavoro, non appaiono mai come possibili trasfigurazioni gratuite, come arbitrarietà o licenze. Anzi, ogni torsione anatomica, ogni accostamento sorprendente, tanto più tale quanto più la pittura è assolutamente “veristica” e descrittiva, non hanno qui il ruolo di amplificazioni segniche, ma sono invece precise e rigorose intensificazioni dell’immaginazione in senso metaforico, simbolico e lirico, con un loro clima puntuale, con tutta una loro artificialità ricostruita nella tensione di uno sguardo che dimostra di aver compreso quanto e come le apparenze della realtà siano, in arte, uno dei tramiti più efficaci, se non l’unico possibile, per impadronirsi a fondo della realtà stessa e poterne fare immagine, senza tradimenti.

La coerenza di Aurelio giunge anche qui a esprimere pienamente una caparbia, assorta fedeltà ideale alle sue scelte insieme poetiche, culturali e civili. È proprio in questa chiave infatti che si deve leggere quella sorta di presenza sospesa sullo sfondo di tutto il suo lavoro, quella “vocazione” al muralismo di cui scrivevo più sopra, capace di evocazioni e recuperi, di citazioni segniche e cromatiche – ma sarebbe meglio dire rinvigorimenti, reinterpretazioni – di forme e stilemi che hanno fatto la storia di quella parte dell’arte moderna decisamente impegnata sul piano politico e sociale, come appunto quelle dei grandi muralisti messicani e, soprattutto, di Siqueiros. Di quest’ultimo, delle sue energiche accentuazioni antitonali, della sua monumentalità antiretorica, della sua capacità di essere colto e popolare insieme, Aurelio ha innestato sulle proprie tensioni d’espressione molti echi e influenze, che crepitano sulle superfici delle sue tele o dei suoi grandi pannelli murali con un uso acutissimo dei colori primari e dell’intreccio calibrato delle forme. Pigmenti violentemente accesi e spesso acidi, che si distribuiscono sul liscio della composizione e nelle prospettive delle figure fino a che ne risultano, tutte insieme nell’esito finale, assolutamente persuasive, assolutamente evidenti. Verdi, gialli, bruni, rossi squillanti, in un’aria luminosa e priva di ombre, si inseguono da un punto all’altro dell’immagine, si dividono e si incastrano in una perentoria definizione plastica come tessere scandite di uno straordinario mosaico dell’immaginazione. Immaginazione, sì. Eppure, malgrado le iperboliche tensioni che Aurelio ricerca e lascia crescere nella sua pittura, malgrado l’incalzante evidenza lirica delle sue metafore, l’effetto finale e complessivo che resta negli occhi e nel cuore dello spettatore non distratto né frettoloso è quello, sempre, di una misurata, sobria concentrazione realistica. Come se, tra le sue mani, la realtà fosse sempre più forte di ogni metaforizzazione, di ogni fantasia. Come se, insomma, gli uomini, il lavoro, le cose, cioè i fondamentali soggetti del suo lavoro poetico fossero – come in effetti sono – l’unica vera consistenza del mondo, il solo baricentro di ogni immaginazione, di ogni metafisica, di ogni sacralità.

E questo clima di viva pregnanza del reale, questa concretezza densa lasciata negli occhi dal concerto immobile dei gesti e dei colori, dagli enigmi o dagli apologhi della rappresentazione, è infine la maggiore, anche se la più interna, qualità del suo lavoro. È qui che Aurelio è pittore fino in fondo, largo di esiti e di sviluppi. La sua intelligenza della figura, del colore e dello spazio, non ha timori né esitazioni quando, davanti al problema della rappresentazione, con in mente le contraddizioni e le miserie del mondo, nel silenzio dello studio o immerso in una piccola folla di spettatori, sa di dover andare controcorrente, di pensare e di operare su valori, su commozioni e spessori del fare e del raccontare cui poca arte di oggi è capace di prestare vera attenzione.Ma, appunto, la qualità di un figurare come il suo non può che essere vincente, in fin dei conti, poiché si tratta di qualcosa che è più robusto e in fondo, diciamolo, anche più necessario di qualunque disabitudine a “sentire” veramente si sia potuta fare largo tra di noi, frastornati come siamo dalle contraddizioni e dall’appiattimento quotidiano, appena temperato dalle misere consolazioni di un grossolano immaginario consumistico e televisivo distribuito in pillole. Voglio dire con questo che la pittura di Aurelio colpisce anche per la sua alterità, per il suo formidabile e sovrano anticonformismo, vale a dire per una sua inalterabile indifferenza alle regole non scritte, ma da quasi tutti applicate, presenti sulla scena artistica contemporanea e nei suoi mercati. E che tale indifferenza sia, tuttavia, legittima e fruttuosa (che, cioè, egli abbia ogni ragione di condurre in questo modo le sue scelta) è dimostrato platealmente dai risultati cui è giunto: dalla loro compostezza, dalla loro piena coerenza, dalla profondità degli argomenti evocati.

Dunque la pittura di Aurelio si è collocata e si colloca ancora, senza tradire in nulla le sue specificità, senza rinunziare al suo costituirsi prima di tutto proprio come pittura, all’interno di una singolare e inedita confluenza emozionale tra arte, idealità e impegno. È proprio qui che si riassume la sua poetica, tutta tesa alla vertigine della significazione lirica e dell’espressione emozionale e tuttavia connotata, direi quasi volontariamente “condizionata”, dalle sponde concrete dell’uomo reale, dell’uomo che esprime il proprio mistero e i propri enigmi nei suoi simboli e nei suoi emblemi. Senza che mai prendano il sopravvento forme metafisiche d’immaginario o un surrealismo gratuito e arbitrario. Al contrario, ogni possibile trascendenza di queste immagini e dei loro significati, i loro pur folti scostamenti dalla linea del racconto realistico, sono sempre e soltanto pervasi da una tensione che è di natura squisitamente lirica, affabulatoria. Il suo fantastico consiste, semmai, nel ritrovare il senso e il baricentro della dimensione umana di fronte all’impassibile e inconoscibile vastità delle cose. E nell’edificare poesie figurali sulla nostra realtà di uomini e donne d’oggi, innervata di miti, di alienazioni, di gloriose utopie e rassegnate impotenze, di speranze e miserie inaudite. Nel nome, appunto, di una concezione etica più ampia, più completa, più profonda e intensa di quella stessa realtà nella quale viviamo.

AURELIO C.